Racconto scritto per una mia carissima amica, che mi ha “commissionato” il personaggio di Ithiliel
Era stato lo scarto del cavallo a salvarla. Anche Ithiliel aveva avvertito qualcosa di strano nell’aria, quel pizzicore sulla pelle che solo un incantesimo di evocazione riesce a provocare, ma il grande castrone grigio l’aveva anticipata, scattando a sinistra spaventato. La ragazza si era sbilanciata sulla sella, e i mastini infernali avevano affondato i denti nella carne sbagliata.
Erano due, apparsi dal nulla sul sentiero in mezzo al bosco, a un paio di passi da lei appena. Più grandi di un leone dell’Argonfalda, il pelo era una trama pulsante di oscurità, le fauci erano voragini di fuoco liquido. Erano lì per lei. Qualcuno doveva averli evocati per ucciderla, qualcuno che non poteva essere troppo lontano.
Ma Ithiliel non aveva tempo per le domande, i mastini non avrebbero mancato la preda una seconda volta. Reagì nello spazio di un battito di palpebre. Mentre il cavallo si impennava impazzito dal dolore, con il collo spezzato dai morsi, la ragazza si gettò nell’ombra che l’animale proiettava sulla strada e vi sprofondò fino in fondo. Il suo corpo perse la consistenza materiale e divenne oscurità. Viaggiò al suo interno, come parte di essa, fino al lato del sentiero, dove ne uscì saltando per rientrare nell’ombra di un albero, e poi fino a dietro un masso. Lì riemerse e riprese la sua forma corporea. Nel sottobosco l’oscurità era più fitta e non avrebbe avuto problemi a proseguire. Ma viaggiare in quel modo e con quella rapidità era stato faticoso, e fu costretta a trattenne il fiatone per non farsi sentire.
Si trovava a trenta passi dal luogo in cui i mastini stavano facendo a pezzi il suo cavallo. Pochi secondi ancora e avrebbero fiutato la sua presenza. Doveva pensare in fretta.
L’evocatore non era un problema. Si nascondeva di certo a breve distanza, ma non sarebbe uscito allo scoperto fino a che i mastini non avessero completato il lavoro. Doveva prima liberarsi di quelle bestie. Attaccarli con Calien, la sua spada, non era una buona idea. Poteva eliminarne uno con facilità una, ma in coppia erano pericolosi. Un solo movimento sbagliato, una esitazione nel colpire, e per lei sarebbe finita. Doveva trovare il modo di eliminarli separatamente, ma come?
Le venne in mente un gioco che le aveva insegnato da piccola sua madre Eldaven, la fata. Prese un ramoscello secco da terra e si rigettò nelle ombre.
Riapparve venti passi più in là, dietro un albero. Prese Luivannil dalla cintura. Era un arco senza flettenti, solo un impugnatura lunga mezzo braccio, fatta di un intreccio d’avorio, palissandro ed ebano e incisa con rune di fuoco. La appoggiò ai suoi piedi.
Dal fodero sulla schiena sfilò cautamente Calien. Era un oggetto nero e grezzo, ricavata a freddo da un unico pezzo di ferro meteorico, più simile a una enorme scheggia che a una spada. Lungo la lama sporgevano mille spigoli affilati, il cui bordo catturava e rifletteva raggi di luce sottili come argento. L’impugnatura era una spessa trama intrecciata di cuoio di viverna. La pelle di quei rettili simili a draghi era una delle poche a non essere lacerata all’istante da quel metallo alieno. Anche così le mani di Ithiliel sembravano trafitte da centinaia di piccoli aghi ogni volta che impugnava la spada. Era il regalo che le aveva fatto Kaadaharno, il demone suo padre. La appoggiò a terra, accanto all’impugnatura dell’arco.
Sul sentiero i mastini stavano finendo di sbranare il cavallo. Ancora pochi secondi e si sarebbero rimessi in caccia. Ithiliel prese il ramoscello secco tra le mani aperte e giunte, lo avvicino al volto, e soffiò su di esso la formula magica di sua madre. Completato l’incantesimo, lo spezzò velocemente in una dozzina di pezzi.
I mastini udirono il crepitare del legno, e alzarono dalla carcassa dell’animale il muso ricoperto di sangue bruciato e rappreso, sbuffando e sbavando fiamme dalle fauci aperte. Percepirono immediatamente la presenza di Ithiliel, e scattarono assieme verso di lei, accendendo nella loro corsa furiosa piccoli fuochi nel sottobosco.
La ragazza gettò i pezzetti di legno di fronte a sé, sparpagliandoli a ventaglio, poi prese arco e spada e si rigettò ancora nell’ombra.
Quando riemerse, dieci passi più indietro, i mastini avevano già raggiunto la barriera. I ramoscelli, infusi dell’incantesimo delle fate, si erano trasformati in un groviglio di arbusti impenetrabili alti due volte un uomo. Era una illusione semplice, ma sufficientemente ben fatta da ingannare le bestie che si fermarono al di là, latrando e gorgogliando. Ithiliel aveva spezzato uno dei ramoscelli più corto degli altri. Agli occhi delle creature sarebbe sembrato un varco, sufficiente a passare ma troppo stretto per entrambi. Avrebbero dovuto superarlo uno alla volta.
Si appoggiò con un ginocchio a terra e prese Luikannil, l’arco, con la mano sinistra, stendendo il braccio davanti a sé in direzione del varco sulla barriera illusoria. Dalle due estremità dell’impugnatura emersero grandi flettenti dorati, fatti di fiamme e oscurità, completando così l’arco. Un sottile filo di luce bianca ne collegava le punte. Ithiliel lo sfiorò con le prime tre dita della mano destra e lo portò fino al volto, all’altezza delle labbra. L’arco si tese e si flesse, e una freccia di fuoco bluastro e gelido apparve incoccata, pronta per essere scagliata.
“Anche io so giocare con il fuoco, cagnolini”, sussurrò la ragazza.
Quando il primo mastino superò d’un balzo la barriera nel punto in cui essa sembrava più bassa, Ithiliel lasciò andare la corda di luce. Il dardo di fuoco entrò nelle fauci spalancate della bestia, e si inabissò interamente in essa, abbattendola.
Non aveva tempo per una seconda freccia. Lasciò cadere l’impugnatura dell’arco a terra e afferrò la spada di ferro meteorico con entrambe le mani, trattenendo il dolore con una smorfia. Quando il secondo mastino spiccò il balzo su di lei, si alzò lateralmente e colpì con un unico colpo diagonale, dal basso verso l’alto.
La parte anteriore della bestia cadde lontano, dietro di lei. Tutta la parte posteriore urtò invece un tronco di un albero alla sua sinistra, annerendone la corteccia con le fiamme che colavano dal corpo divelto. Brandelli di carne infuocata e svariati rami spezzati caddero attorno, senza colpirla.
“E ora tocca a te, maghetto.”
Prese l’arco e si gettò ancora nelle ombre. Questa volta non c’era fretta, poteva muoversi lentamente. Di sicuro il mago aveva esaurito le sue forze per evocare due creature potenti come i mastini. Non sarebbe riuscito a metterla di nuovo in difficoltà. Poteva avere in serbo una pergamena o una runa, ma gli sarebbe servito tempo per terminare l’incantesimo. Ithiliel l’avrebbe trovato prima.
No, il mago, ovunque si nascondesse, doveva essere vicino e impaurito. Sapeva di aver fallito, e sapeva che sarebbe stato trovato. La sua migliore alternativa era fuggire senza lasciare traccia.
Ithiliel scivolava silenziosa e invisibile tra le ombre, come un serpente nell’erba.
“Hai fatto male i tuoi conti, mago. Avresti dovuto attaccarmi in piena luce…”
Un rumore alla sua destra, una boccetta di vetro in frantumi.
La ragazza saltò fuori dalle ombre appena in tempo per vedere una veste rossa cadere a terra e sgonfiarsi, mentre al suo interno un corpo che una volta era stato umano si trasformava in cenere candida. E così il mago aveva scelto la morte, spezzando tra i denti una fiala di qualche veleno magico. Ectoreum, di certo. Una morte rapida, un solo istante di atroce dolore, mentre tutte le cellule del corpo bruciavano insieme.
“Sei stato saggio, mago. Io ti avrei fatto soffrire di più.”
Frugò tra le vesti vuote, ma non trovò nulla. Prevedibile. Quell’uomo era venuto lì preparato per la missione che gli era stata assegnata, e anche al suo eventuale fallimento. Non era stato così imprudente da trasportare con sé indizi sulla sua identità o su quella del suo mandante. Ma quel veleno, l’Ectoreum… perfetto per cancellare qualsiasi traccia, ma non facile da trovare, ancora meno facile da produrre, ed estremamente costoso.
Chiunque avesse ordinato la morte di Ithiliel doveva essere molto potente o molto ricco. Quasi di certo entrambi.
La ragazza si avvicinò ai resti del suo cavallo. Il corpo era divelto, le ossa esposte e i bordi della carne cauterizzati e fumanti. L’unico occhio rimasto era spalancato a fissare un cielo che non avrebbe mai più rivisto.
Una delle due sacche da sella era quasi intatta. La prese e la posò di traverso sulle spalle. Affondò le mani nella terra del sentiero, ne prese un pugno e lo sparse sulla povera creatura.
“Lascia che la tua carne torni alla terra, amico mio, e che il tuo spirito torni a essere uno con la Madre.”
Aspettò che l’incantesimo finisse di tramutare la carne e le ossa dell’animale in polvere, poi si incamminò a piedi lungo il sentiero.
“Chiunque tu sia, figlio di puttana, mi devi un cavallo”. Poi pronunciò una imprecazione in linguaggio demoniaco che la metà fatesca del suo sangue non fu felice di sentire.
Il mio nuovo romanzo!
IFALIK
Avventura | Mistero | Riscatto
“Salgo sul Trono di Pietra, lascio spaziare lo sguardo
su quello che è a tutti gli effetti il mio dominio, e penso a tutte le cose che mi mancherebbero se me ne andassi o a tutte le cose che non sopporto più. Qui sono contemporaneamente libero e non lo sono. Sono un re prigioniero.“