Tra il 10 e il 29 Giugno 2016 io, Lisa e nostro figlio Michele (due anni da compiere) abbiamo percorso a piedi i circa 300 chilometri che separano Saint-Jean-Pied-du-port da Burgos, le prime 12 tappe della variante francese del cammino di Santiago, la più conosciuta e frequentata. Uno zaino a testa per gli adulti, un bel carrello sportivo per il trasporto del più piccolo.
In un prossimo articolo descriverò come abbiamo affrontato questa impresa da un punto di vista tecnico e organizzativo. Qui invece vi racconterò cos’è stato, per noi, il cammino. Permettetemi di prenderla un po’ larga.
Cos’è il cammino di Santiago?
Un’esperienza sociale
Il cammino ha tutte le potenzialità per essere una grandissima esperienza sociale. Tempo per socializzare davvero con gli abitanti locali non c’è, ma ogni giorno puoi incontrare sul sentiero persone provenienti da molti paesi: italiani, spagnoli, americani, inglesi, francesi (gli unici che salutano imperterriti nella loro lingua…), ma anche giapponesi e coreani. Al pomeriggio trovi alloggio in uno dei tanti ostelli lungo il percorso e, se ti resta energia, hai il tempo di chiacchierare con persone che mai avresti conosciuto altrove, di entrare in contatto con storie e punti di vista che ti sarebbero stati preclusi in una normale vita d’ufficio. Non ci sono età o titoli a dividerci: siamo tutti, letteralmente, sulla stessa strada.
Una sfida
Il cammino è una sfida, sia fisica che caratteriale. Alzarsi ogni mattina, indossare le scarpe su piedi gonfi e doloranti, riprendere a camminare con le gambe di legno rimaste dal giorno precedente e nonostante questo andare avanti di qualche decina di chilometri, giorno dopo giorno, affrontando il caldo, il sole cocente o la pioggia, il freddo, la sete, le dannate salite. Chi, come me, nella propria flaccida quotidianità è abituato a salire in macchina per percorrere i 500 metri che lo separano dal supermercato, sul cammino trova redenzione per il corpo e nutrimento per il carattere.
Essenzialità
Il cammino, per sua natura, ci costringe anche all’essenzialità. Tutto quello che ti serve per il prossimo mese deve stare dentro a uno zaino, il più leggero possibile. “Tutto il necessario, niente di superfluo”, amo dire (ricordate la metafora dello zaino?) Se ti manca qualcosa, probabilmente la potrai procurare lungo la strada, ma nel frattempo ne sentirai la mancanza. Se porti qualcosa di troppo, il suo stesso peso te lo ricorderà ogni giorno, per molte ore al giorno. Impari presto il peso dell’inutile, come presto riconosci il valore di un letto, di un tetto, dell’acqua corrente, di un pasto quando hai fame, di una fontanella quando hai sete, di un albero quando hai caldo. E tutto il resto? Tutto il resto è lontano, a casa, dispensabile.
Un’esperienza lenta, solitaria e meditativa
Infine, il cammino è un’esperienza lenta, solitaria e meditativa. Lunghe ore passate a mettere un piede di fronte all’altro, osservando tanto il mondo fuori quanto quello dentro di noi. Lasciar volare i pensieri tra due abissi sconfinati e contrapposti, camminando in equilibrio sul bordo che li unisce. È un’esperienza che, nelle menti giuste, può essere molto profonda e formativa, a patto di non essersi portati da casa l’intera compagnia di amici e di non passare tutto il tempo a chiacchierare, come ho visto fare ad alcuni.
Un viaggio “vero”
Il cammino, in sintesi, ha in sé tutti i caratteri di un viaggio autentico. Non può essere considerato una semplice “vacanza”, alla pari della settimana in spiaggia o del tour organizzato. In passato ho già fatto questa distinzione, senza voler essere snob: la vacanza è una interruzione, una pausa dallo stress. In vacanza svuotiamo le nostre giornate dalle preoccupazioni e gli impegni della routine quotidiana; in viaggio, invece, le riempiamo di un tipo di vita diversa, più intensa. In viaggio il tempo passa più lentamente e lascia più segni, con il rischio plausibile di tornare a casa più stanchi ma arricchiti di qualcosa che non avremmo trovato né a casa né sul lettino in riva al mare.
Il percorso francese fatto da noi è molto conosciuto e frequentato, ma anche su quel cammino è difficile essere vacanzieri: ogni giorno ci si deve adattare a condizioni sempre diverse, si dorme e si mangia in posti che spesso non si possono scegliere, tempo per i souvenir o per cercare il ristorante italiano non ce n’è. Il cammino, in altre parole, ti costringe a entrare nella mentalità del viaggio: o lo fai, o dopo due giorni ti chiedi chi cazzo te l’ha fatto fare e torni indietro.
E la spiritualità?
Qualcuno potrebbe aspettarsi che nel pellegrino tipico ci sia anche un interesse storico o spiritual-religioso. Personalmente, non l’ho notato in nessuna delle persone che ho incontrato. Il pellegrino moderno fa la foto alla cattedrale o agli edifici più storici, e questo è tutto. Le chiese e i campanili sul percorso servono più che altro a scorgere il prossimo paese da lontano. Gli addetti al turismo spingono sulla componente storica o religiosa, ma sono circondato da persone ben più interessate al presente. E il presente è che questo cammino di Santiago è un percorso ben segnalato, generalmente ben tenuto, bene attrezzato, molto frequentato, molto conosciuto. Un buon biglietto da visita una volta tornati a casa, un’ottima palestra dove imparare l’esperienza del viaggio nel suo insieme, forse un cammino unico nel suo genere ma, a mio avviso, tutt’altro che insostituibile.
E noi tre? Siamo stati un’eccezione.
Noi tre siamo stati una piccola eccezione rispetto agli altri viandanti. Non siamo stati gli unici ad affrontare una parte del cammino di Santiago con un bimbo, ma abbiamo rappresentato uno spettacolo abbastanza raro. Ho perso il conto delle foto che ci hanno fatto come prova della nostra esistenza (“Questa la mando a mia moglie, non ci crederà mai!”) o delle volte in cui hanno svegliato Michele che dormiva nel carretto per salutarlo (“Ma davvero viaggiate con un bambino?! HOLAAAA!”).
Meno socialità, meno silenzio
Rispetto al pellegrino “tipico”, quindi, per noi le cose sono state diverse. A risentirne di più è stata la componente sociale: quando tutti (o quasi) camminavano almeno 20-25 chilometri al giorno, noi restavamo su una media di 15. E come farne di più? Michele voleva scendere, correre, giocare. C’erano molti sassi da contare e da portare al papà, tanti fiori da annusare. Avevo un carrello da spingere in salita, che mi rallentava. Quasi tutti ci superavano lungo il sentiero, e anche le persone incontrate al pomeriggio, la mattina seguente partivano prima e arrivavano più lontano. Non abbiamo incontrato nessuno più di due volte, siamo stati costantemente sorpassati. Per la comodità del piccolo non potevamo nemmeno dormire nelle grandi camerate degli ostelli, preferendo le camere doppie di piccoli alberghi privati, e questo ci ha allontanato ancora di più dal popolo dei camminatori.
Essere in tre ha ridotto per forza di cose anche l’aspetto meditativo, relegato alle poche ore in cui Michele dormiva beato nel suo carrellino. In quelle due orette, io e Lisa, di comune accordo, ci allontanavamo tra noi per permetterci di perderci nei reciproci pensieri, ma non è la stessa cosa che farlo per tutto il giorno. Io, che amo il silenzio, ne ho un po’ sofferto.
Una sfida più ardua
La nostra sfida, in compenso, è stata più ardua. I nostri bagagli erano più pesanti, le nostre provviste più numerose, persino l’acqua in maggiore quantità. Non vorrai farti trovare in mezzo al niente senza acqua o cibo per il tuo bambino, vero? Spingere per mezza giornata un carrello di 35-40 chili, in salita e su sterrato, appesantito anche da uno zaino sulle spalle, è stata una delle cose più faticose che abbia mai fatto in vita mia. La salita interminabile per il passo di Ibañeta, quella scoscesa per l’alto del Perdono, quella ripidissima prima di Mañaru… le ricordo tutte, mentre imprecavo e sbuffavo a testa bassa per portare mio figlio in cima. Riuscirci ha fatto bene alla mia autostima, gli sguardi increduli hanno fatto male alla mia vanità.
Anche mantenere la calma e la pazienza tra noi è stata una sfida aggiuntiva: quando stanchi del cammino avremmo voluto solo buttarci su un prato e svenire serenamente, Michele chiedeva con insistenza un “parco” in cui giocare. Come negarglielo? In fondo era anche il “suo” cammino.
Lui è stato l’eroe di questa avventura.
Lo guardo che sorride mentre esplora l’ennesima camera d’albergo, che lasceremo domani. La sua delizia sono gli interruttori e i cassetti.
“Ti piace questa nuova casetta? È nostra per oggi.”
“Ci!”
“Domani ne troviamo un’altra, contento?”
“Ci!”
“Però se vuoi ci fermiamo qui o torniamo a casa, dai tuoi giochi.”
“Mmm… No!”
E mentre la lampada della camera si accende e si spegne a intermittenza sopra la mia testa, sorrido anche io e penso che il cammino, in fondo, è tutto qui.
—
Per dettagli sulla nostra organizzazione del cammino, questo è l’articolo in cui ne parlo.

Il mio nuovo romanzo!
IFALIK
Avventura | Mistero | Riscatto
“Salgo sul Trono di Pietra, lascio spaziare lo sguardo
su quello che è a tutti gli effetti il mio dominio, e penso a tutte le cose che mi mancherebbero se me ne andassi o a tutte le cose che non sopporto più. Qui sono contemporaneamente libero e non lo sono. Sono un re prigioniero.“