Non è impossibile fare cose impossibili.
Un paradosso? Non del tutto, e ora vi racconto perché.
Tra le attrazioni di Budapest, oltre la birra, le terme e l’industria del porno, c’è la speleologia. A poca distanza dal centro si trova un complesso di caverne esplorabili, e sono molte le agenzie che promettono tour emozionanti nelle viscere della terra.
Nel Settembre del 2011 mi trovavo proprio nella capitale ungherese, per un mesetto di “nomad working”. Io e due amici che mi erano venuti a trovare per qualche giorno (un ragazzo e una ragazza), decidemmo di provare anche questa esperienza, come minimo per dar un po’ di tregua al fegato. Ci vestimmo di una bella tuta resistente, elmetto con torcia, macchina fotografica, e un po’ di coraggio.
La ragazza -Elisa è il suo nome- si bloccò di fronte alla prima caverna, bianca in viso.
“Non posso entrare”, disse, e non volle proseguire oltre.
Il linguaggio è una cosa importante, perché è lo strumento con cui descriviamo e comunichiamo la realtà, ma è così potente che possiamo esserne influenzati a nostra volta. Se questo accade, le parole divengono realtà esse stesse. Un po’ come le profezie autoavveranti.
Ora, tra le parole che hanno moltissima influenza sulla nostra esistenza, c’è proprio il verbo “potere” o “non potere”, come gli aggettivi “possibile” o “impossibile”. Si usano per esprimere una limitazione, ma di che tipo?
Beh, ci sono leggi della natura, e da lì non si scappa. Se io dico “l’uomo non può volare”, ho indicato un confine delle possibilità umane, e anche una verità assoluta, inequivocabile (d’accordo, posso sempre comprare un deltaplano, ma avete capito cosa intendo).
Se invece dico qualcosa come: “non posso dire la verità ai miei genitori”, è la stessa cosa?
Certo che no! Però utilizzando lo stesso verbo che userei per descrivere limiti naturali, questa frase sembra condividerne la stessa assolutezza. “Non dire la verità” è una scelta personale, non un fatto imposto da leggi universali.
Allo stesso modo: “non riesco a rilassarmi”, non è una verità immutabile, ma una condizione transitoria.
Utilizzando questo tipo di linguaggio autolimitante, siamo portati dall’inconscio a credere che dire o non dire la verità non dipenda più da noi, ma da qualcosa di esterno a noi, uno stato di impossibilità su cui non abbiamo nessun controllo.
In parole più semplici, abbiamo appena trovato una scusa.
Se ci ripetiamo una scusa un numero sufficiente di volte, la trasformiamo in un blocco definitivo. Ecco che le parole sono diventate la nostra realtà.
Lo psicologo Fritz Pearls, fondatore della terapia Gestalt, usava affrontare i blocchi dei suoi clienti facendo loro sostituire le parole “non posso farlo” con “non lo farò” o “non voglio farlo”.
Questo sistema permetteva di distogliere l’attenzione del paziente dal concetto di possibile/impossibile e riportarla sul fatto che egli avesse almeno una scelta a riguardo.
La domanda che ne seguiva era: “Perché non lo vuoi fare? Cosa te lo impedisce?”
Ecco che il linguaggio ha riportato un limite ad un contesto più umano e affrontabile, togliendolo dalla sfera delle verità immutabili.
“Ho paura”, disse Elisa.
L’ho scritto un sacco di volte: la paura si può eludere, ingannare, esorcizzare, razionalizzare e sconfiggere.
Se evitiamo la trappola del linguaggio, e trasformiamo tutte le scuse in domande a noi stessi, allora ciò che prima era impossibile diventa di colpo possibile.
Attenzione, “possibile” è diverso da “facile”! Dalle mie parti però si dice “piuttosto che niente, meglio piuttosto”.
Elisa alla fine decise che poteva farcela. Entrò nelle caverne, fece tutto il tour con noi, ne uscì sana e salva, e si divertì come una matta.
Impossibile?
È solo una parola, raramente un fatto.
Il mio nuovo romanzo!
IFALIK
Avventura | Mistero | Riscatto
“Salgo sul Trono di Pietra, lascio spaziare lo sguardo
su quello che è a tutti gli effetti il mio dominio, e penso a tutte le cose che mi mancherebbero se me ne andassi o a tutte le cose che non sopporto più. Qui sono contemporaneamente libero e non lo sono. Sono un re prigioniero.“